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And the winner is … Rullo di tamburi … “An assassination in Turkey” di Burhan Ozbilici, fotografo dell’Associated Press di stanza a Istanbul che, con spregio del pericolo e grande abnegazione, ha scattato la World Press Photo of the year 2017!

Che gran colpo di culo! Un terrorista, di quelli che chiamano il loro odio martirio, cioè testimonianza, e che pertanto cercano il massimo dell’esposizione mediatica, si ritrova immortalato in posa da super hero da un lucido professionista membro dell’agenzia della maggiori testate giornalistiche mondiali che passava di là per caso. Che culo per l’informazione mediatica! Che culo per il poro martire! Che culo per il fotografo! Dio benedica le situazioni culo/culo/culo! Unica sfiga: il signore con le suole un po’ consunte steso a terra.

Se caso mai, travolti dal turbinio di eventi epocali che hanno caratterizzato il 2016, avessimo lasciato cadere questo tristo atto terroristico in dimenticatoio ci pensa la nomina al World Press Photo of the year 2017 a farne sbrilluccicare la testimonianza ancora un po’. Il prestigioso premio onora il fotografo che con “visual creativity” e capacità ha catturato un evento o una situazione della massima portata giornalistica nell’ultimo anno. La foto di Burhan Ozbilici, che vince anche il premio spot news stories, immortala Mevlüt Mert Altıntaş, un poliziotto fuori servizio di ventidue anni, che ha appena assassinato l’ambasciatore russo in Turchia, Andrej Karlov, durante una mostra fotografica ad Ankara  il 19 Dicembre 2016 e bla bla bla..

Poche storie: mano ferma, cuore saldo, capacità di rimanere lì dove il terreno scotta, tutti meriti di un coraggioso fotogiornalista. Per capire la portata di quest’immagine lasciamoci guidare dalle dichiarazioni di chi conta davvero: alcuni dei cazzuttissimi fotoreporter che hanno composto la giuria del premio più fico del mondo.

Mary F. Calvert, fotografa che vuole influenzare il cambiamento sociale, impegnata sulle questioni di genere e diritti umani, premia l’impatto emotivo della foto di Ozbilici: “è stata una decisione molto difficile, ma alla fine ci sembrava che la foto dell’anno fosse un’immagine esplosiva, che aveva a che fare davvero con il concetto di odio dei nostri tempi. Ogni volta che compariva sullo schermo dovevi quasi fare un balzo indietro tanto è un’immagine potente, e abbiamo ritenuto che incarnasse la definizione di cosa sia, del significato del World Press Photo of the Year”. La via dell’impatto emotivo mi sembra un po’ sempliciotta ma indubbiamente è quella intrapresa dal giornalismo in generale e in questo senso la foto è emblematica. A prescindere da ciò mi pare che Mrs. Calvert sopravvaluti la potenza esplosiva di quest’immagine. Il fatto è che quando è arrivata sui nostri schermi ci abbiamo messo un bel po’ prima di capire che si trattasse di una foto vera, tanto puzzava di patacca, e quando l’abbiamo capito era un po’ tardi per farci emozionare. Abbiamo finito per perderci in discorsi sull’opportunità o meno di dar rilevanza ad una foto tanto ripugnante, finendo per provare piuttosto un pruriginoso fastidio per i media che ci si sono buttati sopra soffiando su un fuoco che evidentemente non voleva saperne di divampare. La verità è che se non fosse diventata la Photo of the year ora la staremmo già confondendo con una scena di House of Cards o di Homeland.

Tanya Habjouqua, fotografa giordana impegnata anche lei su robe di genere e diritti umani è orgogliosa della scelta fatta e punta sull’importanza del dibattito. Un po’ come l’ultimo dei markettari: non importa cosa e come basta che se ne parli. “È stata una discussione molto accesa, a volte brutale – a tratti perfino emotiva – ma ne sono orgogliosa. Ritengo che siamo stati coraggiosi nella nostra decisione. Siamo stati audaci. Penso che la nostra scelta di sicuro spingerà avanti il dibattito, un dibattito che secondo me è essenziale fare.” Ma esattamente di cosa dobbiamo dibattere? Shh! Dibattito è una bella parola, usala e taci.

E infine Joao Silva che ci parla dell’odio cosmico come di un sentimento che ci fa sbroccare. Oggi sbrocca il terrorista che si vuol vendicare dei colpevoli Russi, domani chissà. “In questo momento mi sembra che il mondo si stia dirigendo verso l’orlo di un abisso. Questo è un uomo che ha chiaramente raggiunto un punto di rottura, e il suo “statement” è assassinare qualcuno che ritiene colpevole, una nazione che ritiene colpevole per quello che sta succedendo nella regione. Credo che sia ciò che sta capitando in Europa, in America,  in estremo Oriente, nel Medio Oriente, in Siria, e questa immagine parla proprio di questo. È il volto dell’odio”. Eroe o terrorista, è solo questione di punti di vista. Non contraddire perchè alimenteresti l’odio nel mondo. (La parola “odio” si pronuncia con vibrante indignazione).

Applausi e complimenti alla giuria per la scelta coraggiosa. Coraggiosa lo è sicuramente perché la foto è brutta, falsa come un patacca, veicola un messaggio terroristico, e non dimostra alcuna umana compassione per le vittime di questo e di ogni altro attentato. Ci vuole coraggio per mettere il proprio nome dietro questa scelta, un coraggio che Stuart Franklin, presidente di questa giuria e fotografo in un altro campionato, evidentemente non ha: “This image of terror should not be photo of the year – I voted against

“Mi sono fortemente opposto… piazzare quello scatto sul piedistallo significa riaffermare il patto tra martirio e pubblicità… ho paura che stiamo amplificando il messaggio del terrorista attraverso questa pubblicità aggiuntiva che il primo premio gli garantisce… è controverso che l’immagine di un omicidio premeditato, messo in scena in una conferenza stampa per massimizzarne la diffusione, sia diventata foto dell’anno

Grazie Stuart Franklin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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